Sono un sistema capitalista

 C'è nascosta nel sottoscala del mio intimo condominio
 una ragazza cinese  
 forse minorenne
 che lavora ininterrottamente di giorno e di notte.
 C'è una Penelope orientale  
 che disfa e tesse
 senza contratto
 senza orari  
 né salari
 Crea e distrugge
 una trama di ricordi 
 filata con fibre di emozioni  
 
 
 C'è nascosta nel sottoscala del mio intimo condominio
 una ragazza cinese
 che lavora ininterrottamente
 mentre ai piani alti
 la vita scorre
 con apparente normalità.  
 
 
 Sindacati,  
 per favore
 accorrete.
 
 

Tovaglioli

Mi hanno prestato un libro.
Chi me lo ha dato è una persona accurata, ci tiene ai libri, non li stropiccia. Li custodisce quasi immacolati per conservarne la magia e forse anche il profumo, quella ventata di carta e inchiostro che è come respirare la pelle dell’anima dello scrittore.

Da quando il libro è con me, presto la massima attenzione. Freno l’automatismo di metterlo in borsa perché potrebbe rovinarsi.
Penso di portarlo con me al parco e poi torno sui miei pensieri e mi dico che sicuramente lo stropicceró, cresceranno delle orecchie alle pagine e io tremeró.

Faccio un patto con me stessa.
Mi impongo di leggerlo solo a casa e se proprio voglio leggerlo da qualche parte,prometto di portarlo in mano, stringendolo fra le dita, come facevano gli scolari del secolo scorso.

Ci metto molta attenzione.
Lo sposto quando devo apparecchiare, mi curo che non sia vicino al vaso che innaffio, lo allontano da mani di amici sporche di cibarie varie.

Ci metto molta attenzione.
Dove c’è il pericolo lui non deve esserci.
Prevedo azione e reazione.
Vino, caffè, detersivi, liquidi, vi tengo d’occhio. Non lo avrete.

Poi arriva oggi.
Stavo leggendo il libro. La testa era lí, la vuoi una tisana chiedo a mia madre, dice sì, metto su l’acqua, torno a leggere, il bollitore fischia, mia madre porta la tazza, l’acqua è bollente, poso il libro, prendo la tazza,la poltrona su cui siedo è a dondolo, forse oscillo troppo, afferro la tazza, la poltrona è bella ma ,in un attimo, solo un attimo, l’acqua dondola dondola dondola e ciaaaf, l’acqua supera il bordo e finisce non sul pavimento non sulle mie gambe che mi sarei ustionata volentieri, non sulla poltrona ma lì, sui sette centimetri quadrati del maledetto libro.

Respiro.
Mi alzo rapidamente, impreco, asciugo con le mani, in un impeto di lucidità evito di leccare la copertina per asciugare, ancora consapevole che la lingua è umida per natura, anche se in questo istante ho la gola secca. Prendo dei tovaglioli cercando di spiegare la gravità della situazione a mia madre che noncurante del momento di panico continua a chiedermi di che parla il libro, io penso ma ti pare il momento ma poi scaccio il pensiero per non aprire una riflessione sui conflitti interfamilirari.

Incredibilmente riesco ad asciugare.
Tutto.
Ancor più incredibilmente riesco anche a rispondere a mia madre.

Accade così che quando tieni tanto a qualcosa e metti tutta l’attenzione che puoi, accadrà qualcosa di imprevisto, incontrollabile, che bagna il tuo libro.
A volte è possibile asciugare.
Altre, le pagine rimarranno ruvide e ondulate, segnale indelebile di quell’evento.

Il libro sarà più ingombrante, con le pagine ispessite dall’accaduto.
Sarà un nuovo libro che sembra vecchio.
Sarà la testimonianza che non tutto si può controllare e che nella vita serve sì l’attenzione, la cura, la buena onda, il karma, una sedia sicura che non dondoli, i mantra, i patti taciti con sé stessi, ma anche una buona dose di tovaglioli di carta.
Per asciugare qualsiasi acqua che ci inonda.
Sia essa di tisana, pioggia o lacrime.

La mortadella è meglio dello Xanax

La storia inizia che ero in casa e piangevo. Piangevo molto. Le lacrime sembravano non arrestarsi. Anzi, singhiozzavo. E tremavo anche. Insomma ero disperata.

Non è rilevante raccontare quali erano le cause di tanta umidità. E’ sufficiente dire che neanche un deumidificatore di ultima generazione sarebbe riuscito a seccarmi il viso.

Dopo un paio d’ore di baratro, mi rialzo barcollando, con la testa offuscata, i pensieri confusi e gli occhi puliti. Mi avvicino alla cucina. Nel pomeriggio prima di crollare nel buio, avevo fatto la spesa, un evento che in quel momento mi è sembrato un fatto degno di un Nobel o perlomeno di un premio internazionale.

Stranamente il biologico non trionfa nelle buste del supermercato. Si affacciano ,dal nylon, una serie di pacchettini incartati con la carta marrone, così familiare, così unta che tradisce già il contenuto anzi trasuda gli indizi di ciò che vi è nascosto sotto.

Ne prendo uno a caso. Sono ancora affranta. Sono triste. Anzi disperata.

Apro la carta con noncuranza, voglio solo riempire lo stomaco. Ho fame e me ne rendo conto solo adesso.

Srotolo il pacchetto accuratamente piegato da qualche impiegato incamiciato e mentre eseguo questo gesto, inizia a fuoriuscire un profumo che cattura i miei sensi. Lo riconosco. E’ così familiare. E’ così avvolgente. E’ intenso. Mi ricorda le merende a scuola. Quelle di lusso. Mi ricorda mia nonna. Mi ricorda Pablo il mio amichetto delle medie. Si desta anche la vista e tra la nebbia residua del pianto, un colore si affaccia insistente sugli altri e il mondo appare subito Rosa.

Rosa pistacchio. Rosa come le enormi fette di mortadella che ricoprono il ripiano di marmo della mia cucina.

In quel momento accade qualcosa. Di magico. Di inaspettato. Forse un retaggio ancestrale, forse un raptus, forse un atto psico-magico, forse sono posseduta dallo spirito di un camionista che percorre la Salaria e non mangia da settimane. In un attimo mi scaravento sul rosa che si mischia a pane, che si unisce a rosa, che si avvicina a fetta, che sta insieme a rosa, che fa amicizia con briciola, che sta sotto a rosa, che sta sopra a crosta che è di Lariano che è più buono anche se lo volevo scuro ma era finito ma sta bene comunque con il rosa con i pistacchi e taglio, prendo fetta e mangio e taglio, prendo fetta e mangio e in un attimo il rosa non c’è più è diventa bianco come il marmo del ripiano della cucina.

E il rosa non c’è più.

E il rosa non c’è più.

Insieme al rosa è sparita anche quella sensazione oscura, il malessere umido sul viso e nel petto. Insieme al rosa è andata via la tristezza. Insieme al rosa è andato via il nero e si fa spazio il bianco di un leggero sorriso che spunta sul volto.

E’ qui che penso, fantastico ad un mondo diverso. Un mondo nuovo, in cui gli uomini e le donne tristi possano essere curati in ettogrammi. Un mondo in cui il terapeuta possa essere libero di prescrivere un etto di prosciutto crudo per gli attacchi d’ansia, dolce se sono di panico e gambuccio se persistono per più di un mese.

Un mondo in cui le ricette possano essere esibite al reparto gastronomia. “Lei che deve prendere? Io solo due etti di salame, sa, sono per mio marito che è borderline”.

“ Prossimo, 42!”

“ Sono io. Vorrei un etto e mezzo di bresaola, due etti di coppa, un etto di salame ungherese, quattro etti di mortadella, tre di lonza, cinquanta grammi di cotto e basta così. Sono per il condominio, sa com’è, in questo periodo….”

Mi immagino bilance che fumano e quella frase che echeggia nelle orecchie della gente , ancora e ancora e ancora. “ Ho fatto un etto e due che faccio, lascio?”

Che poesia. Che fantasia. Un mondo di ettogrammi rosa, senza millilitri, senza contagocce.

Non chiedetemi cosa sarà dei vegani. E’ una fantasia delirante di un pomeriggio nero che è diventato rosa.

La logica oggi non era prescritta.

Musica

Quella cosa che dentro sale

percorre le vene

ti possiede

ti scuote

e tu

nel silenzio della mente

scuoti le anche

nel silenzio della mente

snodato scalci e scacci i punti interrogativi

nel silenzio della mente

ti muovi scoordinato

e ti lasci entrare dentro

ed è come se gemessi

prendimi,

sono tua,

emozione.

 

tutto tace nella mente

mentre il corpo è in festa

finalmente libero di fare  quello che vuole

 

 

Confessioni di un amore

Confessioni di un amore

Io amo una donna.
L’ho capito tardi. Ero grande e pensavo di aver scoperto già l’amore in tutte le sue forme.
Eppure mi innamorai. Fu bellissimo. Nuovo, inaspettato, frizzante, travolgente.
Davvero, davvero l’amore può riempire così la vita mi chiedevo.
Non mi avevano insegnato questo amore.
Non avevo visto in tv questo amore.
Raramente lo avevo incontrato per le strade.
La vita mi scorreva nelle vene. Il sole splendeva in ogni atomo della materia attorno a me.
L’istante era sempre pieno di infinite possibilità.
La luce brillava negli occhi di tutti.

Io amo una donna.
È un amore tormentato. Difficoltà, distrazioni, dubbi, incertezze.
Un amore che non ha riferimenti.
Un amore che cerca le istruzioni nell’esperienza di qualcuno che non c’è.

Io amo una donna.
E conosco un uomo che ama un uomo.
E conosco una donna che ama una donna.
Ne conosco tanti. Li ho riconosciuti con il tempo.
Anche il tempo li ha riconosciuti.
Lui sì che è di vedute aperte.

Io amo una donna.
Per un intervallo non l’ho amata più.
La paura uccide l’amore. Dicono.
E la paura di non essere amati uccide ancora di più l’amore. Dicono i libri di filosofia fai da te.

Io voglio amare una donna.
La scelta fa la differenza tra il caso e il destino.
Io voglio amare una donna che sono io.

E questa, cara Verona, è la forma più grande di amore. E di omosessualità.

Auguro a tutti di poter essere vivi e di amare sé stessi.
La prima forma dell’amore è gay.

terremoto io

Tremo.
 Scosse di magnitudo mille sulla pelle mia
  
 Si crepa profonda la scorza dell’anima
  
 Tremo.
 Mi scuoto liberando il corpo dalle parole tue che mi si attaccano addosso
 Tremo.
 Mi divincolo nel tentativo di spegnere l’eco del suono della tua voce che lo ripete
  
 Tremo.
 Agitata dal vento incerto che ci culla tutti i giorni.
  
 Tremo.
 Insieme a te che tremi. Insieme a me che tremo.
  
 Tremo. Vibro. Oscillo. Sussulto. Vacillo. Traballo. Sobbalzo.
  
 Al tentativo di non tremare,
 Tremo ancora di più
  
 Trema la voce
 Tremano le sinapsi
 Tremano le mani
 Trema dentro la forma di me stessa che era un tempo e che non aderisce più all’involucro che trema.
  
 Trema l’epicentro del mio io.
 Tremano le convinzioni
 Trema il cellulare e sperando che sia tu, io fremo.
  
 E tremo.
  
 Tremo come Aquila senza cielo
 Tremo come foglia
 Come ramo in tempesta
 Come bambino il primo giorno di scuola
 Tremo come se vuoto fosse dentro
 Tremo per niente
 Tremo per tutto
  
 Tremo invocando aiuto
 Sperando che io possa sentirmi
 E smettere.
  

Volevo arrivare prima per questo

Corro
 Corro
 Corro
 Senza tregua
 Corro
  
 Corro
 Così veloce
 Da superare le pareti di me.
 Corro
 Protesa in avanti
  
 Corro
 Così forte
 Da sovrastare il rumore dei pensieri
  
 Cosa sarebbe se smettessi di correre?
 Il mio corpo mi raggiungerebbe
 Farebbe tana libera tutti
 E io potrei stare serena perché in fondo correre è un gioco
 Non si può dire che mi diverta
 Ma non ci si diverte sempre a giocare
 Quando perdo non è divertente.
 Mi rode il culo. Rosico. Perché col cazzo che l’importante è partecipare.
 Io voglio vincere.
 Per questo corro più veloce che posso
 Io voglio vincere.
 Voglio vincere così tanto che non mi guardo più attorno
 E non mi accorgo
 che è un pezzo
 Che corro da sola
 Che la gara è stata annullata
 Il traguardo non c’è più
 L’hanno spostato
 O forse
 Forse
 Non c’è mai stata una gara.
 Forse
 Io me la sono inventata
 Forse
 Io
 Ho iniziato a correre perché avevo paura
 Terrore infame di rimanere indietro
 Da sola
 E ho corso
 Così tanto
 Così forte
 Così lontano
 che l’unica cosa che vedo avanti
 sono io
 che corro
 da sola

Questo è per te

Questo è per te. Per te che sai che sarà per te nel momento in cui leggerai le prime parole.

 

Vorrei vedere l’alta marea quando l’acqua mi arriva alle caviglie

Vorrei la luna piena mentre guardo il sole

Vorrei che domani fosse oggi, dopo adesso e il tuo bacio prima che poi

Vorrei che tu smettessi di giocare a nascondino tra i pensieri della mia mente e i cunicoli delle mie vene

Vorrei essere il singolare prima persona e accompagnarmi al singolare seconda persona e dimenticare gli altri pronomi

Vorrei donare a me una frazione dei pensieri che dono a te. Scegli tu il denominatore

Vorrei essere te per sentire il vibrare del mio amore. Ma se fossi te non sarei me e non sentirei il mio amore perché non ci sarei più essendo diventata te ma questa è logica e non si sposa bene con la poesia.

 

Ecco vorrei essere la poesia che si sposa con la logica.

Il condizionale che si fa presente imperativo, sicuro senza incertezze

Il futuro che arriva per caso a volte in ritardo, a volte in anticipo

Vorrei darti un biglietto per il tour della mia anima. Costerebbe 1,50 € e varrebbe 100 minuti. Ma per te sarebbe gratis.

Vorrei vederti sorridere mentre mi leggi

Vorrei dirti di più ma anche di meno a seconda dei momenti, del clima e del mio umore

Vorrei avere avuto un’idea più originale che usare un’anafora fatta di “vorrei”

Vorrei il manuale dettagliato delle istruzioni di noi. Senza nomi svedesi impronunciabili. E’ già difficile così

 

Si potrebbe dire che vorrei quello che non ho. Ma questa è deduzione e non si sposa bene con la poesia

Ecco vorrei essere la poesia che si sposa con la deduzione

Il matrimonio lo celebrerebbe la ragione, vestita di immaginazione e a lanciare il riso sarebbero i dubbi

 

Vorrei la certezza di una sola verità che sia unica e immutabile che riempia i polmoni del primo respiro sicuro che farò quando tu non ci sei

Vorrei tutte le cose che non ho scritto e che ho pensato di scrivere

Vorrei anche quelle che non ho pensato per mancanza di fantasia

No, non vorrei più fantasia

 

Vorrei me. Adesso. Più di una pizzetta rossa.

Se

Se quelle mani che sono le mie mani potessero prendere le tue mani che sono le tue, lo farebbero.

Se quegli occhi che vedono i miei occhi fossero i miei, guarderebbero come sono diventata.

Se le spalle che spuntano al lato della testa mi appartenessero, si alzerebbero in segno di resa.

Se le vene che vedo irradiarsi nel dorso di quella mano che è la mia mano, venissero allo scoperto, saprei di che colore sono dentro io.

Se le gambe che tengono il peso di un corpo che non sento potessero muoversi, danzerebbero con te nello spazio di un verde prato.

Se i piedi con le cinque dita che conto tutti i giorni potessero parlare, mi direbbero che le dita sono ancora cinque e sono ancora le mie.

Se la pelle che segna il confine di un’anima stanca rivelasse i segreti che tiene dentro, non ci sarebbe differenza fra me e l’universo.

Se la musica che le orecchie stanno ascoltando adesso smettesse di suonare, potrei dire di essere sorda.

Se le unghie lisce che accarezzo fossero dipinte di colore, non sarebbero le mie.

Se il fremito che corre dentro al ritmo del cuore che dicono essere mio dovesse arrestarsi, smetterei di essere l’anima inquieta che sono.

Se fossi morta tutte le volte che l’ho temuto, avrei mille vite passate.

Se la voce che sento mi corrispondesse, canterebbe stonata.

Se tu fossi qui non scriverei parole che non sono mie.

Le lascerei agli altri.

Come ogni cosa che non mi appartiene.

Mi serve un cucchiaio

Per nutrire l’anima.

Mi serve un cucchiaio abbastanza grande per raccogliere gli abbracci degli amici, i Suoi baci e i sorrisi della gente al bar.

Mi serve un cucchiaio di ferro. Così quando lo avvicino alle labbra posso sentire il sapore metallico e quello forse mi basta per diventare più forte.

Mi serve un cucchiaio da tenere in equilibrio sulla punta dell’indice della mano destra. Per giocare a fare l’artista.

Mi serve un cucchiaio da far oscillare nell’aria per toglierli la durezza. Traformarlo in uno smidollato utensile che ondula tra le mie dita.

Mi serve un cucchiaio per lanciare gli acini d’uva al malcapitato di fronte a me. Prima mi servono degli acini d’uva.

Mi servono degli acini d’uva.

Mi serve un cucchiaio per portare a spasso la mia fragilità. Si mette comoda nella parte concava, seduta a osservare il panorama, in bilico tra me e il mondo. E lì si sente a suo agio.

Mi serve un cucchiaio da far vibrare addosso ad un altro cucchiaio per suonare una tremenda melodia che diverte solo me. Per questo mi serve un altro cucchiaio.

Mi serve un altro cucchiaio.

Mi serve un cucchiaio per vedere il contrario di me. E poi girarlo e vedere me.

Mi serve un cucchiaio perché non ho una bilancia per pesare la mia tristezza. E una volta ho letto su un sito che si possono usare i cucchiai come unità di misura. Un cucchiaio equivale a 10 grammi di farina, 18 grammi di zucchero e di tristezza non c’è scritto. Ma non è importante. Un cucchiaio è un cucchiaio. Se volevo sapere i grammi prendevo una bilancia, invece voglio un cucchiaio.

Mi serve un cucchiaio nuovo. Quello vecchio l’ho riempito e non ci sta più niente sopra.

Mi serve  un cucchiaio che sia nonno di un cucchiaino, padre di una forchetta e suocero di un coltello. Un cucchiaio che abbia il senso di famiglia e di solidarietà.

Mi serve un cucchiaio che possa lucidare nei momenti di noia. E poi infilare in tasca come i clochard dei film.

Mi serve un cucchiaio. E nient’altro. In un cucchiaio ci sta tutta la vita di cui ho bisogno.